Di congedo paternità e parentale

Nei giorni scorsi si è molto discusso di congedo paternità, con il Consiglio agli Stati che ha approvato un controprogetto di dieci giorni da opporre all’iniziativa popolare che ne chiede venti. Si può vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: a me piace pensare che sia l’inizio di un cambio di mentalità che porterà i frutti desiderati.

Le reazioni e i commenti alla proposta del Consiglio agli Stati mi fanno però pensare che siamo ben lontani dal cambio di paradigma che la gestione familiare al giorno d’oggi richiederebbe. Da più parti ho sentito dire che il congedo paternità è dovuto perché il padre ha tutto il diritto di essere di sostegno alla madre. Se è vero, come credo, che la lingua ha la sua importanza, qui ritroviamo ancora la visione paternalistica e maschilista della società: noi uomini (dato che abbiamo la maggioranza nel parlamento) ci diamo 10 giorni di congedo per aiutare la mamma in un momento particolarmente delicato. Non è ciò che mi attendo.

L’uomo non deve essere di supporto o sostegno, ma deve condividere la gestione della famiglia, diventare protagonista, essere un interlocutore, assumersi responsabilità, compiti e doveri. Questa è la rivoluzione sociale che vorrei per il nostro Paese: uomini e donne sullo stesso piano, liberi di scegliere come impostare la vita, ma anche con gli strumenti utili a supportare tutte le scelte. Per questo io preferisco il congedo parentale a quello paternità e maternità: perché accomuna anche sul piano linguistico padri e madri in un unico congedo che permetta loro di gestire al meglio la nascita di un figlio. Battiamoci comunque per il congedo paternità quale tappa intermedia, perché è davvero assurdo che la Svizzera su questo tema sia posizionata fra le nazioni più restrittive (e lo sarebbe anche con le quattro settimane). Per favore però smettiamola di usare un linguaggio retrogrado: le donne non hanno bisogno di supporti, ma di partner.

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