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100 anni di Don Willy

In occasione dei festeggiamenti per i 100 anni dalla nascita di Don Willy Albisetti a Chiasso, mi è stato chiesto di spiegare cosa significa organizzare oggi il campeggio di Catto e quale futuro si prospetta.

Per parlare del presente occorre ritornare alle primavera del 2017: il ricordo è un po’ vago (la mia memoria è del resto notoriamente pessima), ma tutto nasce da Ettore Cavadini (e chi sennò), che convoca Elena Pellegrini-Medici e il sottoscritto e ci chiede se durante l’estate gli avremmo dato una mano a Catto, dove lui e Riccardo Camponovo avevano organizzato una settimana di campeggio principalmente per i ragazzi di scuola media. Come si poteva dire di no a Ettore, Nonostante?

Al termine di quella settimana arriva la fatidica domanda: “Per caso, non avreste voglia di provare a rilanciare il Campeggio di Catto? Ci sembra che ce ne sia un gran bisogno”, dicono loro… La risposta non poteva che essere affermativa, Nonostante…

Qualche settimana dopo Elena ed io ci troviamo con Gigio Coltamai, sempre presente quando c’è da dare un mano. Il Campeggio di Catto riparte così.

Nel 2018 saliamo con 31 ragazzi (per non appesantire il discorso userò solo la forma maschile, che al plurale include anche il genere femminile), 5 splendidi monitori, 6 volontari, 4 cuochi: quella settimana conferma che la magia di Catto è unica e che i nostri ragazzi hanno davvero bisogno di esperienze simili. Alla fine ci guardiamo negli occhi e decidiamo di proseguire, Nonostante…

Quest’anno, per la prima volta, dopo 5 anni siamo tornati ad organizzare il Campeggio di due settimane: abbiamo avuto più di 80 campisti, 21 volontari, 7 monitori, 11 aiuto monitori. In questi cinque anni, grazie anche a Claudio Schneeberger, Fabio Maestrini, Patrick Ferrari, Laurent Balogh (solo per citare coloro che ci sono stati sempre, o quasi)… abbiamo fatto fronte anche ad ostacoli impensabili: Nonostante la pandemia, anche nell’estate del 2020, con tutte le restrizioni e le difficoltà, siamo riusciti a portare a Catto 40 ragazzi. 

Catto è la testimonianza che il volontariato e l’amicizia sono una ricchezza impareggiabile e sono in grado di dare vita ad esperienze uniche. Ringrazio di cuore tutti coloro che condividono questa avventura con me e che qui rappresento come semplice portaparola: la presenza di ognuno di noi è fondamentale e il nostro contributo, grande o piccolo che sia, è essenziale. Grazie!

Il nostro compito però non è quello di rispecchiarci in quanto fatto (ne siamo orgogliosi, certo, e dobbiamo dirlo) ma seminare in vista del futuro: dall’inizio di questa nuova esperienza abbiamo monitori che ritornano tutti gli anni e si spendono senza riserve; diversi ragazzi che terminano la scuola media, e che quindi non possono più partecipare come campisti, chiedono di diventare aiuto monitori. Ad alcuni ne diamo la possibilità, ma è impossibile dare spazio a tutti e tutte, basti pensare che quest’anno abbiamo avuto 45 richieste! Non disperdere questo entusiasmo e questa enorme energia è una sfida che si aggiunge alla sfida, per noi organizzatori, ma non solo: per la nostra Chiasso direi.

Fra questi giovani, e fra quelli che seguiranno, ci sono coloro che riprenderanno il testimone e proseguiranno questa magnifica esperienza, iniziata una settantina di anni fa… Nonostante

“Nonostante”, termine che caratterizzava la parlata di Don Willy, è diventato il simbolo del campeggio e vorrei terminare questo intervento proprio con le parole di Don Willy:

“Dobbiamo credere nonostante

Dobbiamo sperare nonostante

Dobbiamo amare nonostante

Nella forza di questo

nonostante

ho tanto amato Voi

e ho servito la Chiesa”

Cultura a Chiasso in tempo di Covid (CCC)

In questi mesi di chiusura o di servizio ridotto, molte persone hanno sentito la mancanza di teatri, musei e biblioteche. Gli operatori si sono prodigati per offrire forme alternative di fruizione, avviando iniziative che, si spera, potranno continuare anche quando tutto tornerà alla normalità.

Uno dei progetti di cui Chiasso può andare maggiormente fiera è quello denominato “Le stanze dell’arte”, che ha abbracciato diverse espressioni artistiche: disegno, grafica, scultura, musica… Alla sua base vi è l’idea di valorizzare giovani artisti ticinesi, diplomatisi di recente, che hanno avuto la possibilità di esporre allo Spazio officina o di esibirsi al Cinema Teatro, ottenendo visibilità anche sui canali social del Centro Culturale. Il rafforzamento dei legami e delle interazioni con il territorio circostante deve essere, a mio modo di vedere, uno degli elementi caratterizzanti dell’azione degli istituti culturali pubblici: ancora una volta Chiasso ha dimostrato, con i fatti, di essere capace di guardare lontano, senza dimenticare chi ci sta vicino e alimenta l’humus culturale del nostro territorio. E che rappresenta il nostro futuro.

Congedo paternità? Certo che sì…

Che nel 2020, in Svizzera, sia ancora necessario convincere le persone dell’utilità per i padri, e le famiglie in generale, di beneficiare di dieci giorni di congedo per poter apprezzare fino in fondo la nascita del/della figlio/a non può sorprendere. Al di là di figure anacronistiche con tratti caricaturali che si aggirano per il Paese e il nostro Cantone, il ruolo del padre alle nostre latitudini e nella nostra società è ancora scarsamente compreso. Chi si occupa attivamente della prole, si sente spesso chiamare “mammo” ed è, a tutti gli effetti, una mosca bianca. La suddivisione dei ruoli soffre ancora del retaggio del passato e la visione stereotipata dei compiti delle madri e dei padri è ancora ben radicata e impregna la nostra vita quotidiana.

Cari papà, care mamme, al di là dei dieci giorni di congedo paternità, dobbiamo tutti lavorare sul significato di maternità e paternità, di genitorialità in generale, affinché diventi chiaro per tutti che uomo e donna hanno medesimi diritti e doveri anche in questo campo. E che questi diritti costituiscono una premessa imprescindibile affinché anche le donne possano ambire a migliorare la loro condizione.

In effetti, un’effettiva parità fra donna e uomo può essere raggiunta unicamente se a entrambi i sessi sono riconosciute le medesime possibilità nel mondo del lavoro: ossia, in concreto, quando un datore di lavoro potrà scegliere fra un uomo e una donna unicamente in base alle competenze, e non sarà spinto ad escludere le seconde perché potenzialmente lontane dal lavoro per mesi a seguito di una gravidanza. Per arrivare a questo, bisogna iniziare a concedere un congedo ai papà degno di questo nome, che crei una breccia e costituisca un primo passo per scardinare un sistema ancora prettamente maschilista, per non dire misogino.

SÌ, dunque, il 27 settembre al congedo paternità quale punto di partenza per una società in cui le immagini stereotipate siano finalmente superate e la genitorialità sia vissuta come un progetto comune che permetta alla coppia di garantirsi un supporto reciproco.

Di congedo paternità e parentale

Nei giorni scorsi si è molto discusso di congedo paternità, con il Consiglio agli Stati che ha approvato un controprogetto di dieci giorni da opporre all’iniziativa popolare che ne chiede venti. Si può vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: a me piace pensare che sia l’inizio di un cambio di mentalità che porterà i frutti desiderati.

Le reazioni e i commenti alla proposta del Consiglio agli Stati mi fanno però pensare che siamo ben lontani dal cambio di paradigma che la gestione familiare al giorno d’oggi richiederebbe. Da più parti ho sentito dire che il congedo paternità è dovuto perché il padre ha tutto il diritto di essere di sostegno alla madre. Se è vero, come credo, che la lingua ha la sua importanza, qui ritroviamo ancora la visione paternalistica e maschilista della società: noi uomini (dato che abbiamo la maggioranza nel parlamento) ci diamo 10 giorni di congedo per aiutare la mamma in un momento particolarmente delicato. Non è ciò che mi attendo.

L’uomo non deve essere di supporto o sostegno, ma deve condividere la gestione della famiglia, diventare protagonista, essere un interlocutore, assumersi responsabilità, compiti e doveri. Questa è la rivoluzione sociale che vorrei per il nostro Paese: uomini e donne sullo stesso piano, liberi di scegliere come impostare la vita, ma anche con gli strumenti utili a supportare tutte le scelte. Per questo io preferisco il congedo parentale a quello paternità e maternità: perché accomuna anche sul piano linguistico padri e madri in un unico congedo che permetta loro di gestire al meglio la nascita di un figlio. Battiamoci comunque per il congedo paternità quale tappa intermedia, perché è davvero assurdo che la Svizzera su questo tema sia posizionata fra le nazioni più restrittive (e lo sarebbe anche con le quattro settimane). Per favore però smettiamola di usare un linguaggio retrogrado: le donne non hanno bisogno di supporti, ma di partner.

Maturate e maturati: siate protagonisti della vostra vita

Sono emozionato, non lo nascondo. Non capita tutti i giorni di parlare davanti a così tante persone e soprattutto a ragazze e ragazzi della vostra età. Emozione doppia perché fra di voi c’è un ragazzo che ha festeggiato con me l’inizio del nuovo millennio: non ne era certamente cosciente, dato che era ancora nella pancia di sua mamma, ma trascorremmo il Capodanno del 2000 a Firenze.
Non so quanti di voi sappiano cosa abbia significato il passaggio all’anno 2000: magari qualcuno ne ha sentito parlare dai genitori, durante una di quelle discussioni che nascono quando rammentano i tempi che furono: quelle che iniziano con “ai miei tempi”, per intenderci; altri, forse, magari incuriositi, avranno fatto qualche ricerca.
Come tutte le date significative, il passaggio del millennio diede vita ad eccessi quali visioni apocalittiche che pronosticavano la fine del mondo; al di là di questi fenomeni marginali, il vero problema fu di ordine tecnologico e venne definito millennium bug, o baco del millennio: il fatto che diversi software utilizzassero solo due cifre decimali per memorizzare l’anno avrebbe potuto avere conseguenze imprevedibili allo scoccare del nuovo anno 00. Risolto questo, il mondo non si fermò e la vita è continuata, e per praticamente tutti voi ragazzi è addirittura iniziata.
Anche io, che pure sono genitore, vi parlerò brevemente dei miei tempi. Abbiate pazienza. Parlare di liceo mi porta indietro di 30 anni. Un periodo inizialmente doloroso: come alle medie fui vittima di angherie, che forse oggi rientrerebbero nel fenomeno definito bullismo. La bocciatura alla fine del primo anno, che si svolgeva ancora a Morbio, fu provvidenziale: con grande gioia mi separai dai compagni prevaricatori e trovai una nuova classe meravigliosa. In seguito furono 4 anni molto arricchenti, in cui ebbi modo di conoscere docenti, ma prima ancora persone, davvero eccezionali che mi cambiarono profondamente e mi aprirono la mente. Non tutti riuscirono a farmi amare le loro materie, ma molti contribuirono a farmi crescere e a darmi gli strumenti per comprendere il mondo che mi circondava.
Altrettanto determinanti in questo processo di crescita furono i compagni di classe e gli altri studenti del liceo, con cui si dava vita a discussioni profonde, a tratti accese, ad esempio su Italia e Svizzera, su “badini”, “maiaramina” e “svizzerotti”, elementi di una rivalità che trent’anni fa era ancora molto sentita. Oggi invece il cittadino di origine italiana è per lo più considerato integrato e non fa praticamente più notizia, mentre gli stranieri sono altri, provengono per lo più da oltre mare: i “problemi” però sono simili, i temi anche, e complice anche una situazione economica più difficile, la nostra società si impegna maggiormente a cercare capri espiatori cui imputare tutte le colpe di questo mondo, piuttosto che sforzarsi di comprendere i motivi per cui siamo giunti qui.
Insomma, oggi come allora, si entra al liceo poco più che bambini e adolescenti, e si esce da persone maggiorenni, più consapevoli e con responsabilità completamente diverse. Ed è a queste responsabilità che dovete prestare attenzione.
Lo sapete meglio di me come in generale vi dipingono gli adulti: perdonatemi se semplifico ed esagero al massimo, ma voi per gli adulti siete tendenzialmente nullafacenti, privi di ideali e di interessi, svogliati, smartphone dipendenti, menefreghisti, individualisti e chi più ne ha più ne metta. Come invece voi giovani definiate noi adulti dovreste dirmelo voi, ma non credo che sia il luogo adatto.
Contrariamente all’immagine stereotipata che ho appena tratteggiato, negli ultimi mesi avete invece dimostrato che siete attenti, passionali, impegnati, sognatori, determinati: in poche parole siete pronti ad assumervi le vostre responsabilità. Siete stati capaci di metterci di fronte alle nostre mancanze, evidenziando come il “problema”, se così si può definire, non siete voi, ma noi: noi adulti che non abbiamo fatto nulla, o troppo poco, per evitare a voi un presente come questo.
Un presente fatto di inquinamento, problemi ambientali, insicurezza nell’ambito del lavoro, diseguaglianza sociale sempre più marcata, solo per citare alcuni aspetti.
Ma il vostro attivismo degli ultimi mesi è il segnale più bello che avreste potuto lanciare: avete fatto capire che voi ci siete e siete pronti a fare la vostra parte. E avete messo noi adulti davanti a sconcertanti verità. Ora si deve cambiare, e dobbiamo farlo insieme, trovando il modo di dialogare e collaborare.
Cosa dovremmo fare noi adulti, siete voi a doverlo dire.
Per quanto riguarda voi, dal mio punto di vista dovete partecipare maggiormente alla vita politica del vostro paese: sì perché, parafrasando la teoria dell’effetto farfalla, ogni singola azione può avere conseguenze imponderabili anche su larga scala.
Alcuni studi statistici dimostrano che il tasso di partecipazione alle elezioni, dopo un entusiasmo iniziale per 18enni e 19enni, scende abbastanza chiaramente nella fascia successiva tra i 20 e i 25 anni, per poi risalire costantemente. Secondo uno studio dell’Ufficio cantonale di statistica, nelle recenti elezioni cantonali la classe di età con la percentuale di votanti maggiore è stata quella fra i 70 e i 79 anni.
Per quanto riguarda la presenza attiva di giovani nei legislativi ed esecutivi comunali e cantonali, non ho trovato dati significativi, ma basta dare un’occhiata ai principali consessi del nostro Cantone per capire che sono/siete ampiamente sottorappresentati.
Non sono uno specialista e non improvviserò letture pseduo-scientifiche di questo fenomeno. Vi dico però che in questo campo dovete dare di più: se volete costringere il mondo adulto a cambiare, dovete sporcarvi un po’ le mani: battervi cioè con tutte le forze per i vostri ideali, ma imparare a discutere anche di fognature, rotonde, costruzioni, lavoro ecc.: in ogni singola decisione di qualsiasi comune, sia esso grande o piccolo, ci sono elementi che possono provocare un cambiamento. E se non sarete voi a provocarlo, ne subirete semplicemente le conseguenze. Senza se e senza ma. Siate quindi protagonisti della vostra vita e continuate a stupirci.

Per il Mendrisiotto e la Sinistra unita

One”, cioè uno o una. Da questa cifra normalmente ha inizio la numerazione, ossia, per estensione, si determina tutto ciò che è misurabile. L’ho scelta perché è una straordinaria canzone d’amore, che, spero non me ne vogliano gli U2, esprime alla perfezione la sinistra, i suoi travagli, il suo modo di essere. Dice infatti: «Noi stiamo insieme, ma non siamo uguali». E ancora: “Noi siamo uno, ma non siamo gli stessi” oppure «Ci feriamo l’un l’altro, poi lo facciamo di nuovo».

Non voglio annoiarvi con la mia biografia: chi è curioso troverà nel web le risposte alla maggior parte delle sue domande, vale a dire se sono sposato (sì, lo sono), se ho figli (sì, ho due figlie), se lavoro (sì, sono direttore della Biblioteca universitaria Lugano e membro del comitato di Bibliosuisse, l’associazione nazionale dei bibliotecari), se ho qualche hobby, se faccio volontariato, se, se, se…

Mi propongo a voi e agli elettori perché il Mendrisiotto ha bisogno della Sinistra: alle recenti elezioni cantonali, nonostante la presenza e gli ottimi risultati personali di Ivo e Anna, il nostro partito ha patito in termini percentuali. Vi sono numerosi candidati momò per il Nazionale, quattro solo di Chiasso, tra cui l’amica Jessica Bottinelli per I Verdi: segno che a livello federale si discutono temi importanti per la nostra regione. E noi socialisti non possiamo permetterci di lasciare campo libero alle politiche e idee altrui.

Ciò non vuol assolutamente dire che il sottoscritto ritenga il Mendrisiotto l’ombelico del mondo: dopo aver studiato a Friburgo, ho lavorato a Winterthur, per 14 anni a Bellinzona e da 6 sono a Lugano; ho girato il Cantone quale allenatore di calcio e annualmente organizzo una colonia in Leventina. Penso quindi di essere un buon conoscitore del Ticino e dei suoi problemi. E, grazie ai differenti progetti nazionali cui partecipo per l’USI, mi ritengo anche un buon conoscitore della Svizzera e delle sue dinamiche.

Mi metto a disposizione portando l’esperienza unitaria di Chiasso, dove tutta la sinistra e I Verdi collaborano e lavorano assieme. Credo fortemente che la sinistra debba essere unita: dal mio punto di vista non esiste un “più di” o “più a” sinistra, che già di per sé, con il “più”, introduce un rapporto di forza contrario a uno degli ideali della sinistra: l’uguaglianza. E se si è uguali, non si può esse più o meno.
Ci sono ideali in cui si riconoscono tutte le donne e tutti gli uomini di sinistra: l’uguaglianza, appunto, la libertà, la solidarietà, la giustizia sociale, la parità di genere, giusto per indicarne alcuni. E poi ci sono le sensibilità individuali, queste sì differenti, che magari ci fanno fare scelte di campo diverse. Ed è qui che ci spacchiamo, che regaliamo la vittoria ai nostri avversari politici: ogni differenza di vedute è vissuta come un dramma. Personalmente sono invece convinto che tutto ciò sia molto arricchente. Dobbiamo imparare ad accettare che anche dalla nostra parte, a sinistra, ci possano essere visioni puntuali discordanti, evitando che si sfoci in processi alle streghe o agli stregoni. D’altronde la tolleranza è un altro dei nostri valori, o almeno idealmente dovrebbe esserlo.

I temi che mi stanno a cuore? Molti, ed è impossibile snocciolarli tutti in questi pochi minuti. Mi concentro quindi solo su alcuni: proveniendo dal Mendrisiotto, direi la sicurezza, un tema che abbiamo lasciato alla destra ma di cui dobbiamo riappropriarci, abbinandolo alla componente sociale; poi il lavoro, con tutte le derive del precariato e del dumping salariale e il ruolo delle ex Regie federali; l’ambiente (e non potrebbe essere altrimenti), con problemi quali il traffico, l’inquinamento, la realizzazione della terza corsia fra Lugano e Mendrisio (da bloccare in tutti i modi), la continuazione di Alptransit a sud di Lugano in tempi rapidi; la conciliabilità lavoro-famiglia; il congedo parentale; e per finire, l’educazione a tutti i livelli, la formazione professionale, la ricerca scientifica e la cultura: temi fondamentali per il futuro dei nostri giovani e del nostro Paese, per i quali a livello federale vengono poste le fondamenta, all’immagine ad esempio del prossimo messaggio sulla cultura ora in consultazione.

In conclusione, voglio ringraziare di cuore la mia famiglia (oggi purtroppo assente per altri impegni), e in particolare mia moglie, per la sua vicinanza, e le compagne e i compagni del Mendrisiotto che in queste settimane mi hanno fatto sentire il loro sostegno. A tutte e tutti voi garantisco il massimo impegno per il nostro partito e i nostri ideali.

Non si fa mai abbastanza

Pronto soccorso: arriva un’ambulanza con a bordo una persona, che non è moribonda, ma necessita di cure. Gli operatori la respingono, sostenendo che oggi hanno curato un numero sufficiente di pazienti e non hanno più posto per ospitarla. La notizia si diffonde e la protesta monta, sulla rete ma non solo. “È uno scandalo!”, “Vogliamo la testa del direttore sanitario del Pronto soccorso!”

Non è una notizia questa, fortunatamente. Quando sono chiamati all’opera i soccorritori non si pongono domande sulle condizioni sociali della persona in difficoltà, né sulla sua nazionalità o provenienza. Come prima cosa prestano le cure necessarie e poi si preoccupano di trovarle un posto.

Ho utilizzato questa immagine come metafora per esprimere la posizione che una persona dovrebbe avere nei confronti delle persone in difficoltà. Non posso sopportare che una persona sia lasciata morire semplicemente perché poi non si sa dove metterla o a chi attribuirla. Non è tollerabile. Ora leggo che a Chiasso si raccolgono firme contro l’ampiamento provvisorio del Centro di registrazione. Già il Municipio a maggioranza ha espresso le sue riserve, alcune anche corrette, soprattutto per la qualità del progetto presentato e delle soluzioni prospettate. Ma non si venga a dire che Chiasso ha fatto abbastanza, che il Cantone e la Svizzera non possono fare di più. “Das Boot ist voll” (“La barca è piena”) si disse durante la seconda guerra mondiale per giustificare scelte che tutti oggi ritengono indifendibili. Passati i giorni della memoria, in cui si sono ricordati i genocidi più efferati, si presenta una petizione sostenendo che “Chiasso ha già fatto abbastanza”. Chiasso, la mia Chiasso, la Chiasso multiculturale, la Chiasso fiera cittadina di frontiera che ha accolto e accoglie persone da tutto il mondo, non è stufa di ospitare persone in cerca di altro per la loro vita e quella dei loro figli. Ciò significa accettare tutto e tutti? Sappiamo benissimo cosa permette la legge svizzera: nel suo pieno rispetto, al netto di un progetto discutibile, non seminiamo vento, non aizziamo gli animi per nulla. La mia Chiasso non ha paura dei suoi ospiti, la mia Chiasso è una cittadina accogliente che si nutre delle sue mille anime. Chiasso, la mia Chiasso, è unica proprio per questo.

(Pubblicato su La Regione del 05.02.2019)

I venti dell’odio

“Non bisogna uscire da Auschwitz rattristati, ma inquieti rispetto a noi e al mondo contemporaneo”. Con queste parole Piotr Cywinski, Direttore del museo di Auschwitz-Birkenau, ha chiuso il suo intervento in occasione della presentazione degli Atti del Progetto Lugano città aperta.

Ciò che Cywinski ha più volte sottolineato è il legame che corre fra quanto successo allora e quanto accade oggi. Non un discorso retorico, ma un interrogativo che si pone all’uomo e alle sue coscienze. L’Olocausto fu reso possibile da persone che agivano nei campi di concentramento come se nulla fosse, considerando le loro attività alla stregua di un lavoro “normale”. Ciò che deve interessare maggiormente non sono quindi paradossalmente le vittime, per le quali tutti i visitatori del museo provano compassione, ma i silenzi delle persone che contribuirono a quella pagina di storia.

Per esprimere meglio questo concetto, Cywinski ha ripreso una domanda postagli da un visitatore al termine della visita nel suo museo. Dopo aver allargato il discorso al genocidio dei Rohingya, il visitatore chiese: “Ma perché negli anni ’40 nessuno si oppose allo sterminio degli Ebrei?” Di fronte all’abominio commesso ai giorni nostri in Myanmar, la questione fu rivolta al passato e non al presente. Nessun interrogativo sulla mancata reazione della comunità internazionale a quel genocidio. Ma cosa facciamo noi oggi, adesso, per evitare che queste efferatezze si ripetano?

Cywinski non ha dato risposte, ma ha parlato alle coscienze dei presenti, fra cui diversi allievi delle scuole medie di Chiasso, che recentemente hanno vinto il premio della Fondazione Spitzer.

Personalmente sono uscito dall’incontro molto provato e con molte domande. È fin troppo semplice, ma non semplicistico, fare dei paralleli con la realtà odierna, in cui venti di odio e paure sono utilizzati per giustificare decisioni e politiche assurde e disumane, alimentando una vera e propria guerra fra poveri, secondo la logica del “tu sei sfortunato, l’altro lo è di più e non può essere accolto”.

Dobbiamo tutti aprire gli occhi e ribellarci all’accettazione di quest’idea: non perché dobbiamo essere buoni o addirittura buonisti, come vengono definiti coloro che nutrono una profonda sensibilità verso questo tema, ma perché siamo uomini che si confrontano con altri uomini, e la nostra sofferenza è diversa dalla loro solo per le contingenze, ma nella sostanza ci accomuna: perché ciò che cercano loro, lo cerchiamo giustamente anche noi; perché da questa guerra assurda usciamo tutti perdenti: loro vittime di decisioni assurde, noi vittime ma anche artefici di queste decisioni.

L’aggregazione del basso Mendrisiotto

Tagli, misure di risparmio, ottimizzazione delle risorse, riduzione o cancellazione degli investimenti, limitata intraprendenza da parte degli esecutivi: chi più chi meno, i comuni del basso Mendrisiotto sono confrontati con i medesimi problemi e ognuno cerca di barcamenarsi come meglio riesce, salvo qualche rara lodevole eccezione, che deve le proprie fortune a fattori essenzialmente esogeni. Ciò che li accomuna, tutti, è lo scarso peso specifico a livello istituzionale e politico. Basti vedere l’esito delle proteste sulle chiusure degli uffici postali nei singoli comuni, sulla continuazione di Alptransit a sud di Lugano, sull’insediamento del museo del territorio a Balerna, o ancora sul ruolo della stazione di Chiasso e sullo scadimento dei collegamenti ferroviari tra la regione e il resto della Svizzera o l’Italia, giusto per citarne alcuni.

Quando la situazione si fa difficile, si ricorre a convenzioni, consorzi o enti, che anche quando vanno in porto non risolvono tutti i mali, costano al cittadino perché creano ulteriori organi di governo remunerati e sottraggono il controllo ultimo ai legislativi. Quando non si trova un accordo, i singoli comuni si trovano da soli ad affrontare le difficoltà perché i vicini non ritengono di dover contribuire alla soluzione del problema, come è successo recentemente con il rifiuto di qualche comune di rinnovare le convenzioni con Chiasso per la piscina coperta perché la si ritiene poco frequentata dai propri cittadini.

È proprio questo egocentrismo, questa incapacità o mancanza di volontà di guardare oltre i propri confini comunali, questa miopia politica che sta rovinando il nostro territorio, che avrebbe tutte le potenzialità per rilanciare la propria immagine se solo decidesse di unirsi e investire nei settori che lo valorizzano: le bellezze naturali (in primis la Valle di Muggio), la cultura, l’enogastronomia, il tempo libero. Un comune solo, che pianifichi il territorio e le infrastrutture per il bene della popolazione, e non per meri calcoli politici o finanziari; che affronti con forza le difficoltà; che sia un interlocutore risoluto e di peso con i decisori; che sappia imporre la propria visione; che, al di là del pensiero delle forze politiche comunali, rispecchi la realtà odierna, che risulta essere già oggi a tutti gli effetti quella di un comune unico. Si obietterà che in passato Chiasso è stata arrogante e non ha curato i rapporti di buon vicinato, procedendo in maniera autonoma su più fronti: potrebbe essere un’osservazione corretta, ma sta di fatto che Chiasso si è dotata di strutture di cui ha beneficiato tutta la regione e da cui quest’ultima non può prescindere. E in ogni caso, è più utile trascorrere il presente preparando il futuro, piuttosto che recriminando sul passato. Per questo l’aggregazione dei comuni del basso Mendrisiotto quale prima tappa di un discorso più ampio deve diventare l’obiettivo comune non di domani, ma di oggi.